In Italia la formazione ha sempre avuto un peso rilevante, tanto che per quasi 20 anni, in un’epoca di forte crescita economica (1984-2003) la nostra legislazione prevedeva un’apposita figura normativa: il contratto di formazione e lavoro. Si trattava di una tipologia di contratto a formula mista, molto particolare, che univa all’inquadramento, la possibilità di ottenere una formazione in azienda al fine di salire di livello. Di fatto quindi si consentiva l’impiego con la retribuzione minima, che era destinata a crescere, tramutando il lavoro nella forma del tempo indeterminato, quella più ambita, grazie a un percorso formativo di apprendistato, che il lavoratore si impegnava a svolgere con diligenza. A patto che l’azienda lo inserisse obbligatoriamente nell’orario di lavoro. Questa figura contrattuale fu abolita dalla Legge Biagi del 2003 per quel che riguarda l’impiego privato, ma rimane valido nell’ambito del settore pubblico.

 

La formazione era stata prevista anche in altre figure contrattuali, come il contratto di inserimento e il contratto di apprendistato. Il contratto di inserimento era stato creato dalla legge Biagi, con l’obiettivo di favorire l’inserimento o il reinserimento del lavoratore nel mondo del lavoro, in base all’adattamento delle competenze professionali. Si trattava dunque di una figura giuridica volta a colmare il gap di occupazione in una fascia ampia della popolazione, di personale non qualificato, che non riusciva a trovare lavoro in quanto non aveva specifica formazione. Questa doveva essere garantita dal datore di lavoro, che a suo tempo era incentivato a impiegare con l’inserimento, per via dei benefici ottenuti: dapprima un inquadramento del lavoratore in una categoria inferiore fino a due livelli rispetto alla corrispondente qualifica che si intendeva conseguire; l’assenza di tutele e di diritti particolari; riduzione dei costi contributivi. Il contratto fu abrogato con la Legge Fornero, mentre il Jobs Act di Renzi ha introdotto il meccanismo delle tutele crescenti.

Rimane invece valido il contratto di apprendistato, che la Legge Biagi aveva proprio previsto come essenzialmente “formativo” cioè professionalizzante. Esso è volto al conseguimento di una specifica qualifica professionale da realizzare direttamente nel posto di lavoro, grazie all’acquisizione delle conoscenze necessarie, di tipo tecnico e professionale, per soggetti fino a 30 anni (dai 18 in su, ovviamente). La durata del rapporto varia a seconda della tipologia e della qualifica.

L’apprendistato è stato previsto anche nel caso si voglia conseguire un diploma ovvero accedere  a un percorso di apprendimento superiore, come ad esempio voler conseguire una laurea o un titolo di alta formazione come un master (specializzazione tecnica) secondo l’art. 69, L. 144/1999. Per la Legge Fornero l’apprendistato professionalizzante è utile proprio per generare crediti formativi e concorrere al conseguimento di titoli universitari e specialistici. Questa commistione tra formazione, apprendistato e istruzione ha generato dei conflitti di attribuzione tra Stato e regioni, queste ultime deputate per legge a organizzare la formazione. Le varie sentenze hanno ricordato che lo Stato ha competenze generali sull’istruzione e che le regioni possono comunque regolamentare al meglio la formazione, senza per questo voler decidere sui crediti formativi.

La formazione professionale ha ottenuto infine un valido riconoscimento nell’ambito scolastico, con la creazione degli istituti tecnici superiori (ITS), che hanno il compito di valorizzare, tutelare, migliorare il made in Italy, nonché sviluppare ricerca, professionalità avanzata in tutti i campi, attraverso una pianificazione che chiama in causa le università, i centri di ricerca, gli enti di formazione riconosciuti, le istituzioni, in particolare modo gli enti locali.

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Fonti:
https://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Biagi (Legge Biagi)
http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/38222.htm (legge Fornero)
http://www.jobsact.lavoro.gov.it/ (Jobs Act)

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